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come nacque la mia città (viterbo)

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view post Posted on 30/9/2009, 10:04
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Città di origine etrusca ma fieramente medievale, Viterbo era dotata di sei nobiltà, tra cui la bella Galiana, donna di impareggiabile bellezza, tuttora orgoglio e vanto del capoluogo della Tuscia.

MITI E LEGGENDE SULL’ORIGINE DELLA CITTA’ DI VITERBO


TUSCIA - VITERBO - (UnoNotizie.it) Verso la metà del quattrocento Francesco D’Andrea, frate dell’ordine francescano, con l’intento di glorificare la sua terra ne affidò le origini ad un improbabile mito. Nella sua Cronaca Viterbese egli narra che Iafet, uno dei figli di Noè, lasciati i monti di Ararat dove si era fermata l'arca, giunse in Inghilterra. Le genti che da lui discesero arrivarono in Italia costruendo città e castelli, come fecero i fratelli Italon e Iaseo che nel territorio di Viterbo fondarono due città, una chiamata Surrena l'altra chiamata Civita Muserna.

Una seconda fantasiosa versione sulla fondazione di Viterbo la dobbiamo al frate domenicano viterbese Giovanni Nanni, detto Annio, vissuto tra il 1432 e il 1502. Oltre ad essere un celebre teologo e letterato, la sua mente stravagante lo portò a diventare l’iniziatore di una vera e propria scuola di contraffattori. Nei suoi Commentari propose assurde rivelazioni che, snodandosi in un incredibile intreccio, uniscono storia etrusca, genealogie bibliche e miti greci. Annio fa risalire la fondazione del primo nucleo della città allo stesso Noè a cui viene attribuita la costruzione di quattro castelli: Fanum, Arbanum, Vetulonia e Longula.

E’ da questa mitica Tetrapoli che nacque l’acronimo FAVL, tutt’ora usato e per molto tempo inserito nello stemma cittadino, nelle bandiere, negli stemmi, nelle sculture e negli affreschi. Secondo la teoria anniana, Viterbo medievale nacque quando questi quattro castelli della Tetrapoli, rimasti separati per secoli,vennero uniti con una cinta muraria grazie ad un decreto emanato da Desiderio, ultimo re dei Longobardi. Annio per provare la sua tesi presentò addirittura un’iscrizione incisa in caratteri longobardi, rinvenuta casualmente presso l’attuale Piazza della Morte, dimostratasi in seguito un clamoroso falso. Malgrado la sua fervida fantasia, le argomentazioni anniane dovettero godere di un certo credito se si pensa che, cent’anni dopo la sua morte, i pittori Teodoro Siciliano e Baldassarre Croce vi dedicarono un ciclo di affreschi nella Sala Regia e nella Sala del Consiglio del Palazzo dei Priori di Viterbo.

Comunque, sia Francesco D’Andrea che Annio da Viterbo concordano sul fatto che il mito basilare della fondazione di Viterbo è legato alla figura del semi-dio Ercole, famoso eroe greco importato presso gli etruschi e da loro adorato con il nome di Hercle. Questo, vedendo terre disfatte e distrutte dalla guerra, edificò un castello che chiamò appunto Castello di Ercole e gli donò come simbolo di nobiltà e forza un leone, ancora oggi simbolo della città. Ritrovamenti archeologici testimoniano che sul Colle del Duomo, dove oggi sorgono la Cattedrale e il Palazzo Papale, sorse un abitato etrusco particolarmente attivo nel VI – V sec a.C. Che tale insediamento fosse dedicato ad Ercole è documentato da fregi marmorei e frammenti di iscrizioni rinvenuti nella seconda metà del XIX secolo ma il suo nome non è certo, potrebbe essere Surina o Surna (da cui la Surrena della cronaca di d'Andrea),con riferimento al culto del dio infero Suri legato alla presenza nel territorio di numerose sorgenti termali.

Sulla scia di Annio il notaio viterbese Domenico Bianchi, nel suo inedito manoscritto Istorie di Viterbo del 1615, abbonda ancora di più in assurdi particolari. Egli racconta infatti che Ercole, giunto nella zona dei Monti Cimini, per lasciare memoria del suo valore conficcò nel suolo una clava sfidando gli abitanti del luogo ad estrarla, ma nessuno vi riuscì. Quando Ercole riprese dal terreno la clava compì un prodigio: dal foro cominciò a sgorgare un enorme getto d'acqua che riempì un’intera valle formando l'odierno lago di Vico.

Nella Tuscia la convinzione della passata presenza di Ercole è sempre rimasta viva e radicata nell’immaginario collettivo tanto da convincerci che il suo culto, continuato nel tempo, abbia contribuito a ritardare la diffusione delle prime pratiche cristiane. Dunque, anche se sono invenzioni frutto di menti fantasiose, queste epopee mitologiche, avvolte da un alone di affascinante mistero, non possono essere né ignorate né sottovalutate perché su di esse si sono costruiti i futuri avvenimenti storici e un’intera tradizione popolare giunta fino a noi.

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view post Posted on 30/9/2009, 10:20
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- LA «TROIA» E IL LEONE


ltri dicono che Viterbo venne fondata da alcuni esuli troiani, sbarcati sulle coste d'Etruria dopo la distruzione della città natia ad opera degli Achei. Secondo quanto era stato profetizzato, una scrofa dal manto bianco apparve loro indicando il punto dove avrebbero dovuto stabilire la loro nuova patria. Dopo aver fondato la nuova città, gli esuli presero a nutrire e venerare il feroce animale, che chiamarono «troia» in ricordo della patria perduta e consacrarono alla loro dea Elena.

In seguito a questi fatti, i cittadini di Viterbo furono impegnati, per volere della dea, ad un sacrificio annuale. Ogni anno, nel corso delle festività primaverili, essi avrebbero consegnato alla «troia» una vergine di diciotto anni, sorteggiata fra le ragazze più belle e virtuose della città. La fanciulla veniva condotta fuori dalle mura cittadine, presso il fiume Paradosso, e là veniva denudata e legata a un macigno. La popolazione si ritirava poi ad una certa distanza e assisteva all'arrivo della sacra scrofa che, emersa dal bosco, divorava la sua vittima.

La barbara usanza si perpetuò nel tempo ed era ancora in uso all'inizio del XII secolo; nonostante fosse trascorso tanto tempo, la scrofa era ancora lì, ansiosi di nutrirsi delle carni di una vergine, come esigeva il patto che gli esuli troiani avevano anticamente stretto con la loro dea. Ma gli abitanti di Viterbo, con l'avanzare della civiltà e l'ingentilirsi degli animi, non accettavano più l'idea di questo assurdo sacrificio, a cui pure si piegavano tra le lacrime. L'avvicinarsi del giorno di Pasqua giungeva come un incubo, diventando un giorno di lutto e non più di festa.

Accadde così che a Viterbo, in una bella casetta, nacque Galiana, una fanciulla di modesta origine, la cui impareggiabile bellezza era pari soltanto alle sue virtù. Ed accadde che, quando Galiana compì diciotto anni, proprio lei fu estratta a sorte per essere sacrificata alla scrofa bianca. I Viterbesi ne provarono dolore e sgomento, ma il fato aveva designato Galiana all'orribile sorte e nessuno poteva impedirlo. Così Galiana fu condotta sul luogo del sacrificio, venne fatta spogliare e fu legata al macigno.

Quando l'orologio della torre comunale suonò i rintocchi del mezzogiorno, la scrofa bianca emerse dalla foresta. Ma mentre l'animale si avvicinava alla fanciulla per divorarla, dal limite del bosco uscì un leone che, avventandosi sulla scrofa, la dilaniò con quattro terribili colpi dei suoi artigli. Mentre l'orologio suonava nuovamente dodici rintocchi, il leone, così com'era apparso, nuovamente scomparve.

La città di Viterbo, riconoscente per essere stata liberata dal crudele tributo di sangue, rimosse il vecchio emblema della città, che fino a quel giorno aveva raffigurato un cavallo o un liocorno, e fece dell'immagine del leone, con accanto la pelle bianca della scrofa con le quattro ferite rosse poste in croce, l'emblema civico.

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view post Posted on 30/9/2009, 10:55
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LA BELLA GALIANA


osì avvenente era la bella Galiana che i giovani venivano anche da paesi lontani per poterla ammirare e chiederla in sposa. Ma Galiana, fidanzata con un giovane contadino chiamato Marco, respingeva ogni proposta, anche se avanzata da nobili. Si narra che un giorno Giovanni di Vico, discendente di una potente famiglia prefettizia di Roma, venne nella cittadina della Tuscia appositamente per ammirare la stupenda ventenne viterbese di cui non si fa che lodare in ogni dove l'incomparabile bellezza. Il nobile vide la fanciulla uscire con un'amica dalla chiesa di San Silvestro e, avvicinatosi, le fece un inchino, ma Galiana neppure lo degnò d'uno sguardo.

Nei giorni successivi, Giovanni compì ogni tentativo per avvicinare Galiana, parlarle, dichiararle il proprio amore, con l'unico risultato di sentirsi riferire che la ragazza non gradiva la sua corte e lo pregava di desistere dalle sue insistenze. Ferito nell'orgoglio da questo rifiuto, Giovanni stabilì di rapire la ragazza. Così, in una notte particolarmente buia, Giovanni si arrischiò ad arrampicarsi con una fune fino alla finestra della camera dove dormiva Galiana. Pare che un fulmine colpisse quella notte la campana della torre Monaldesca, che risuonò su tutta la città. I cittadini accorsero e impedirono al nobile romano di portare a termine il suo piano. I priori bandirono Giovanni di Vico da Viterbo, proibendogli il ritorno in città, pena la morte.

Passò del tempo e Giovanni, radunato un esercito, marciò contro Viterbo, minacciando di prendere d'assedio la città se Galiana non fosse stata sua sposa. La risposta dei Viterbesi fu un netto e chiaro rifiuto. Allora il nobile mise in atto il suo piano. Cinse d'assedio Viterbo e concentrò i suoi sforzi dalla parte di Valle Faul, che era la più vulnerabile.





Porta di Valle e la Torre detta della Bella Galiana.

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Secondo la tradizione, fu dalla lunetta di questa torre che si affacciò per l'ultima volta la bella Galiana. In realtà la torre, chiamata Torre Branca, è posteriore agli avvenimenti, essendo stata fatta costruire nel 1295, dal podestà di Viterbo Orazio di Corrado Branca.


Ma il popolo in armi seppe respingere ogni assalto, infliggendo gravi perdite alle truppe prefettizie. Si racconta che le donne viterbesi stavano a fianco degli armati sulle mura e che, anzi, proprio ad una di esse toccò la ventura di scagliare la freccia che colpì Giovanni, ferendolo gravemente. Allora il nobile romano fece sapere ai Viterbesi che se ne sarebbe andato, a patto che gli mostrassero Galiana. Egli si sarebbe accontentato di ammirarla per l'ultima volta, poi avrebbe tolto l'assedio.

I priori si rivolsero a Galiana, la quale accettò per amor di patria. Il giorno successivo la ragazza si affacciò da una lunetta nella torre di Porta di Valle, quando una freccia scoccata da un soldato prefettizio la colpì alla gola. È incerto se il soldato scagliasse la freccia per sua iniziativa, o se compì il misfatto per ordine dello stesso Giovanni. La ragazza cadde morta. Molto violenta fu la reazione dei Viterbesi, i quali uscirono dalle mura in armi, guidati da un certo Guerriante, e costrinsero alla fuga le schiere prefettizie. Sembra che anche Giovanni di Vico morisse per le ferite riportate.

Era l'anno 1138. Il corpo di Galiana fu tumulato in un sarcofago che era stato tratto, dicono alcuni, dall'antico masso del sacrificio, sul quale venne scolpito il miracolo del leone e della strofa. Il sarcofago fu portato nel portico della chiesa dedicata all'Angelo con la Spada, dove ancora oggi si può ammirare.


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view post Posted on 3/10/2009, 10:10
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LA GALIANA STORICA
A Viterbo, murato nella facciata chiesa di Sant'Angelo de la Spatha, in Piazza del Plebiscito (o Piazza del Comune), si trova un sarcofago romano in marmo, risalente al II secolo, sul quale sono scolpite alcune scene di caccia. A seconda degli interpreti, si tratterebbe della caccia al cinghiale caledonio, della caccia al leone nemeo, oppure delle battute di caccia di Alessandro Magno. Secondo lo storico viterbese Giovanni Nanni detto Annio, tale sepolcro sarebbe appartenuto a un certo Valerio Agricola Urbano, sesto pretore romano d'Etruria, il quale sembra fosse solito dare la caccia ai cinghiali utilizzando un leone da lui addomesticato.

Nel 1988 il sarcofago è stato rimosso e trasferito nel Museo Civico di Viterbo; qui, nel corso dei lavori di restauro, nel 1991, il sepolcro venne aperto, ma - con gran delusione dei viterbesi - fu trovato vuoto. Sulla facciata della chiesa è stata in seguito apposta una copia in marmo di Carrara.

Stando a quanto riferiscono le cronache cittadine, nella prima metà del XII secolo morì in Viterbo una gentildonna di insolita bellezza, chiamata Galiana. Essa venne seppellita in questo sepolcro, posto sotto il portico che allora si stendeva davanti alla chiesa. Così scrive il cronista Niccolò Della Tuccia: «Quando Galiana morì, fu messa in un bello avello di marmo intagliato e posto dinante la chiesa di Santo Angelo de la Spatha».

Quando, nel 1549, crollò il campanile della chiesa di Sant'Angelo, il portico venne travolto, e con esso il sarcofago di Galiana. Ricostruita la facciata della chiesa nella forma attuale, vi fu apposto il sarcofago, recuperato dalle macerie. In testa al sarcofago vennero poste due epigrafi. Una era il rifacimento dell'autentica epigrafe tramandata da Lanzillotto, l'altra venne scolpita per l'occasione. L'una e l'altra epigrafe portavano la presunta data della morte di Galiana, il 1138.






Il sepolcro di Galiana.
Sulla facciata della chiesa di Sant'Angelo de la Spatha, in Piazza del Plebiscito, a Viterbo

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Questo il testo delle due epigrafi:


Flos et honor patriæ, species pulcherrima rerum
clauditur hic tumulo Galeana ornata venusto
fœmina si qua polos conscendere pulchra meretur
angelicis manibus diva hic Galiana tenetur.
Si Veneri non posse mori natura dedisset
nec fragili Galiana mori mundo potuisset.
Roma dolet nimium, tristatur Thuscia tota.
Gloria nostra perit, sunt gaudia cuncta remota.
Miles et arma silent, nimio perculsa dolore.
Organa iam fidibus pereunt caritura canoris
anno milleno canteno terque deceno
octonoque diem clausit dilecta tonanti.


Fiore e onore della patria, bellissima sembianza del creato, Galiana con gli ornamenti è chiusa in questo sarcofago. Se bella donna merita di salire verso il cielo, Galiana è sorretta dalle mani degli angeli. Se la natura avesse concesso a Venere di non poter morire, neanche Galiana sarebbe potuta morire per il mondo caduco. Roma si duole molto, la Tuscia tutta è triste, la gloria nostra è morta, sono finite tutte le gioie. Il soldato e le armi tacciono colpite da un dolore troppo grande. Organi e cetre vanno in rovina e mai più daranno suono. Nell'anno 1138 chiuse la vita, cara al Signore dei Cieli.

Prima epigrafe

Galianæ patritiæ viterbensi
cuius incomparabilem pulchritudinem
insigni pudicitiæ iunctam
sat fuit vidisse mortales
consules maiestatis tantæ fœminæ
admiratione hoc honoris ac pietatis
monumentum hieroglyphicum ex S.C. ppp
MCXXXVIII.
A Galiana, patrizia viterbese, la cui incomparabile bellezza unita a straordinaria pudicizia, fu il vederla grande premio ai mortali. I consoli in ammirazione della nobiltà di così magnifica donna, per decreto del Consiglio, posero questo ricordo d'onore e di pietà, scolpito nella pietra. 1138.

Seconda epigrafe

L'una e l'altra epigrafe ricordano semplicemente la bellezza e le virtù di una gentildonna viterbese vissuta nella prima metà del XII secolo, ma non fanno alcun riferimento ai dettagli delle due leggende fiorite intorno al nome di Galiana: quella del sacrificio alla scrofa bianca e quella dell'assedio della città da parte delle truppe prefettesche. Sembra certo che fino alla metà del XII secolo la leggenda non esisteva ancora, ed è dunque assai probabile che la leggenda di Galiana sorse soltanto dopo il XIV secolo. Quel sarcofago, dalle movimentate figurazioni e di cui forse nessuno comprendeva ciò che vi era rappresentato, e la fama della bella donna il cui ricordo era ad essa legato, dovettero certamente indurre qualcuno - forse un cantastorie - a crearvi sopra una vicenda, di cui ora analizzeremo gli elementi.
 
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view post Posted on 22/8/2013, 20:25
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V - LA LEGGENDA DELLA BELLA GALIANA







Lo stemma di Viterbo.


Il drappo retto dal leone mostra la croce bianca che divide i quattro quarti rossi, di cui la leggenda di Galiana narra l'origine. Le insegne papali vanno ascritte al fatto che Viterbo fu residenza papale nella seconda metà del XIII secolo. La palma dietro il leone era il simbolo della cittadina di Ferento, vinta e distrutta dai Viterbesi nel Medioevo.


Che lo stemma di Viterbo (una croce bianca che divide quattro parti rosse) derivi, secondo la leggenda, dal manto insanguinata della scrofa bianca uccisa dal leone, è naturalmente una pura invenzione. È vero che nei tempi antichi si trova talvolta come emblema della città il cavallo o il liocorno, ma è anche vero che da tempo immemorabile Viterbo ha avuto per stemma il leone, simbolo di nobiltà e di forza [Leo sum qui signo Viterbum], che cronisti come frate d'Andrea e Annio rimandano alla presunta fondazione della città da parte di Ercole. Soltanto più tardi comparve il drappo rosso diviso in quattro da una croce bianca, e precisamente nel 1316, data a cui risale il diploma di Bernardo da Cucuiaco, conservato nell'Archivio Storico presso la Biblioteca Comunale della città, con il quale viene concesso a Viterbo di inalberare nel vessillo comunale le insegne papali e viene insignito il popolo viterbese del titolo di perpetuo Gonfaloniere della Chiesa.

Difficile stabilire l'origine della leggenda della bella Galiana. Abbiamo visto che una Galiana esistette veramente: era una gentildonna viterbese che morì nella prima metà del XII secolo e venne sepolta in un sarcofago romano custodito nel portico della chiesa di Sant'Angelo della Spatha. Le scene di caccia scolpite sul sarcofago, tra le quali si vede un leone assalire un cinghiale, possono aver suggerito alcuni elementi della leggenda che sorse su Galiana.

La leggenda di Galiana non è tuttavia priva di alcuni elementi colti che rimandano ai poemi omerici, i quali fanno pensare che venne forse elaborata da un cantastorie professionista. Vi è innanzitutto il motivo di una guerra e di città assediata per il possesso di una donna d'incomparabile bellezza, che è Elena nei poemi omerici e Galiana nella leggenda viterbese. Il tentativo di rapimento di Galiana da parte di Giovanni di Vico potrebbe ancora ricordare quello di Elena da parte di Paride. Che in questa tradizione Viterbo venga vista come una novella Troia è un motivo esplicitamente sottolineato dalla leggenda locale, nella quale si vuole che furono proprio gli esuli troiani a fondare la cittadina della Tuscia. La tradizione locale d'altronde vuole che le donne di Viterbo vantino una bellezza proverbiale (da cui il detto «Viterbo dalle belle torri, dalle belle fontane e dalle belle donne», di cui esiste anche una versione salace).

Galiana si configura dunque come una versione locale di Elena. È d'altronde facile notare che il nome di Galiana/Galeana sembra corradicale con quello di Elena. Un ulteriore collegamento si ha nel fatto che la scrofa a cui viene sacrificata ogni anno la fanciulla più bella di Viterbo, sia consacrata proprio alla dea Elena. È evidente che chi inventò la leggenda viterbese di Galiana aveva senz'altro una certa conoscenza dell'Iliade.

Il racconto della scrofa bianca che avrebbe indicato agli esuli troiani il luogo dove fondare la futura Viterbo, rimanda invece a Virgilio, all'episodio in cui Enea, sbarcato nel Lazio, fonda la città di Lavinio nel luogo dove trova, secondo un vaticinio, una scrofa bianca allattare trenta porcellini (Eneide [VIII: 42-48.]). Tuttavia, nel racconto di Virgilio, è la scrofa ad essere sacrificata insieme ai suoi lattonzoli, non è ad essa che vengono tributati sacrifici di fanciulle. La leggenda viterbese sembra presentare tratti più feroci, addirittura più arcaici, dalla levigata versione virgiliana.

Ma proviamo a scendere più in profondità. Se nell'Iliade Elena compare come una regina mortale, gli studiosi ritengono generalmente che essa sia probabilmente il residuo di un'antica dea lunare (Helénē < Selḗnē). Gli etruschi la chiamavano Elina (Elina, Elinai, Elinei, Elnei), non smisero mai di considerarla una dea e sovente la raffigurarono, sul retro dei loro specchi, insieme alle altre divinità del loro pantheon. È dunque probabile che circolassero, presso gli Etruschi, antiche leggende su Elina, e forse alcune di esse erano parallele alla vicenda omerica della guerra di Troia,. È anche possibile che alcune di queste versioni etrusche del mito di Elena siano alla base della leggenda viterbese di Galiana.

Che alla base vi siano antichi culti, sembra anche sottolineato da un altro dettaglio. In una delle zone più antiche di Viterbo, presso il fosso del Paradosso, là dove secondo la leggenda si trovava la pietra alla quale venivano sacrificate le fanciulle viterbesi, vi è una stradina oggi chiamata Via della Discesa, al cui imbocco si trova una cappella dedicata alla Madonna del Soccorso. Questo nome, confermano gli storici, ne cancellò uno più antico che era Madonna della Troia o Madonna della Scrofa, che ad un certo punto venne avvertito come irriverente e sostituito con uno più conveniente. Quali siano le origini di questo strano epiteto mariano non lo sappiamo: forse alla base vi era un culto precristiano tributato a qualche divinità femminile della fertilità che compariva accessoriamente in forma di scrofa.

La scena del leone che uccide la scrofa sorse probabilmente dal racconto, ricordato da Annio, sul pretore romano Valerio Agricola Urbano, che in questa zona andava a caccia di cinghiali con il suo leone addomesticato, e probabilmente fissato nella memoria collettiva dalle immagini sul sepolcro incastonato nella facciata della Chiesa di Sant'Angelo. Non si può nemmeno dimenticare che il leone era comunque il simbolo di Ercole, altro presunto eroe fondatore di Viterbo. Si può forse vedere nella lotta tra il leone e la scrofa l'abbattimento di un'antica religione matriarcale per opera di un nuovo culto? È un 'ipotesi affascinante, ma soltanto un'ipotesi.

Per concludere, è probabile che la leggenda viterbese di Galiana abbia assorbito elementi antichissimi, forse di origine etrusca, che vennero riletti, interpretati e fissati storicamente intorno al XIII-XIV secolo. A quell'epoca che Viterbo era da poco assurta alla dignità di libero Comune e le sue lotte vittoriose erano ancora vive nel ricordo di tutti. C'erano tutti gli ingredienti perché, eccitata da antiche leggende, la fantasia del popolo creasse una sua epopea ed una sua eroina.

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